La pioggia colpisce con violenza la rossa terra della Repubblica Centrafricana. Gli oltre ventimila sfollati del campo profughi M’Poko cercano riparo nelle tende e sotto teli sdruciti, nelle strade i contingenti internazionali non smettono di pattugliare le vie della capitale Bangui. S’interrompe l’elettricità e il buio travolge le strade, ormai deserte.
Alle latitudini in cui è in corso il conflitto tra milizie musulmane ex-Seleka e cristiane e animiste Anti-Balaka nemmeno un temporale durante la stagione secca, invocato perchè permette la maturazione dei manghi, ha il potere lenitivo e immaginifico di spazzare via gli orrori e infondere una debole aspettativa nel domani.
E’ piuttosto un ulteriore fattore di paura, come se ogni momento della quotidianità fosse stato immolato a una prescritta condanna di morte. Ma c’è sempre un contrappasso: e laddove l’eresia è fede, c’è chi, invece, all’eresia si è opposto con la fede. L’arcivescovo Dieudonne Nzapalainga, all’indomani della forte pioggia osserva il sole che incendia i colori della sua terra e racconta: «Quella che è in corso nel mio Paese non è una guerra religiosa, è una guerra politica. Da quando sono iniziati i problemi le autorità religiose cristiane e musulmane hanno sempre detto di fare attenzione perchè i Seleka non si battono per Maometto e gli Anti-Balaka non lottano in nome di Gesù, ma lo fanno per i propri interessi».
“Gli Anti-Balaka si definiscono cristiani, in realtà non lo sono e usano il nome di Dio come scudo. Un cristiano non uccide e il cristianesimo insegna a perdonare”.
Eccellenza, quali sono quindi le ragioni della rivolta Seleka del 2012 che poi ha portato alla guerra in Repubblica Centrafricana?
I Seleka sono un’alleanza di diversi gruppi armati dell’est, composti principalmente da musulmani. Quando il presidente Bozizé dichiarò che il controllo delle miniere dei diamanti apparteneva allo Stato, questi ribelli, vedendosi privati delle proprie ricchezze, si sono uniti, hanno assoldato mercenari del Ciad e del Sudan e sono scesi fino a Bangui dove hanno commesso atrocità.
E’ per rispondere alle violenze dei Seleka. si sono formati gli Anti-Balaka…
Esattamente; i cittadini non islamici, nel 2013, esasperati dalle violenze, si sono uniti in gruppi di autodifesa, gli “Anti-Balaka”. Hanno prima respinto i Seleka, e poi si sono abbandonati alle peggio efferatezze, perseguitando, uccidendo e decapitando i civili musulmani e la situazione è così esplosa. Io ho sempre detto che non hanno niente a che fare con i cristiani coloro che hanno imbracciato le armi contro i Seleka. Non è un cammino cristiano quello che hanno intrapreso.
Cosa fa oggi il governo centrafricano?
Il governo è debole e dipende troppo dalla comunità internazionale. Cosa può fare un governo senza un esercito e che non può inviare i suoi rappresentanti nelle diverse regioni del Paese perché vengono cacciati?
Oggi ci sono gruppi armati ovunque. E’ concreto il rischio che la Repubblica Centrafricana diventi la nuova Somalia?
L’ho ribadito più volte e continuo a farlo: se non prestiamo attenzione, saremo la nuova Somalia. Occorre che lo Stato ristabilisca alla svelta la sua autorità e si impegni a proteggere la popolazione.
Gli Anti-Balaka, hanno commesso barbarie e continuano a farlo. Come vi esprimete in merito?
Loro si definiscono cristiani, in realtà non lo sono e usano il nome di Dio come scudo. Un cristiano non uccide e il cristianesimo insegna a perdonare. E non esiste nessuna ragione a questo mondo che possa legittimare un assassinio. Io ho ospitato l’Imam Omar Kobine Layama nell’arcivescovado per 5 mesi. Abbiamo vissuto insieme e insieme abbiamo dimostrato che cristiani e musulmani convivono e sono fratelli.
Qual è la soluzione per uscire dalla crisi e ritornare ad avere la pace in Centrafrica?
Avere una presa di coscienza e capire che nessun altro, se non noi stessi, ci può aiutare. Noi tutti centrafricani dobbiamo dialogare, metterci insieme e capire che siamo tutti figli della stessa nazione. Se la soluzione arriverà invece da altri, sarà superficiale e tutto collasserà di nuovo.
Intervista all’imam Omar Kobine Layama
«Bangui la coquette», Bangui la graziosa, così era chiamata la capitale della Repubblica Centrafricana. “Verdi colline d’Africa” di hemingwayana memoria l’abbracciavano e i palazzi dell’epoca dell'”imperatore” Bokassa puntellavano le rosse strade circondate dalle case basse e disperse nello smeraldo della foresta che costeggiava i viali e accompagnava i cittadini sino all’argenteo fiume Oubangui.
«Bangui la roquette», Bangui il razzo, così è stata ribattezzata oggi la capitale della Repubblica Centrafricana. Quartieri abbandonati, case saccheggiate, edifici abbattuti e facciate rimaste in piedi che portano, come cicatrici non rimarginabili, i segni delle raffiche di Ak47 e quelli dei razzi RPG da quando, più di due anni fa è scoppiata la guerra civile tra i ribelli musulmani Seleka e le milizie cristiane e animiste Anti-Balaka. La mappa della città è una divisone in rioni e ogni arrondisment evoca, con il suo nome, un’apparizione ossessiva della morte, che tutti ha coinvolto e tutto ha travolto. C’è il Pk5, il ghetto musulmano, il Boy-Rabe, la roccaforte dei cristiani e c’è il quartiere di Mpoko, quello dell’aereoporto, con i suoi oltre 20 mila profughi. Ed è proprio lungo l’arteria che attraversa quest’ultimo, in pieno giorno, quando il traffico è congestionato, che due miliziani Anti-Balaka, uno con il passamontagna sul viso e l’altro con un fazzoletto che gli nasconde il volto, tengono in ostaggio i presenti sotto la minaccia di una bomba a mano, rubano il veicolo a un moto-tassista islamico e poi scappano, accompagnati da un’impassibilità collettiva della folla: ennesima dimostrazione di come il conflitto abbia sopraffatto ogni aspetto della quotidianità in Centrafrica, divenendo un’ontologica prerogativa dell’essere e la consuetudine di una coralità ormai assuefatta all’orrore e scevra di ogni speranza.
“Il buon musulmano è colui che agisce nella giustizia e nella legalità. Non uccide, non violenta, non saccheggia. Il buon musulmano è un uomo di pace.”
La titanica violenza che ha fagocitato la Repubblica Centrafricana è un velo, che impedisce allo sguardo di andare oltre la macroscopica visione della dannazione; ma, una volta scostata la cortina dell’orrore, è possibile incontrare l’esigua minoranza di chi, invece, al fatalista abbandono si oppone con l’arma della perseveranza, credendo nella possibilità di un nuovo domani di convivenza. In prima linea c’è il Presidente della Comunità Islamica della Repubblica Centrafricana, l’Imam Omar Kobine Layama: una jalabia nera e un’eleganza nelle parole che lascia intendere un’acuta levatura di pensieri. L’autorità islamica, nel patio della sua abitazione, dopo le abluzioni e la preghiera, racconta: «Quella che stiamo vivendo non è una crisi religiosa, ma una guerra politica e militare, dove la fede è stata strumentalizzata».
Imam, ma a dar vita alle violenze è stata la ribellione dei Seleka (ndr la coalizione di ribelli islamici), composta principalmente da miliziani musulmani…
Il buon musulmano è colui che agisce nella giustizia e nella legalità. Non uccide, non violenta, non saccheggia. Il buon musulmano è un uomo di pace. Quando si prendono le armi per rivendicare il potere si sta intraprendendo un percorso inaccettabile per l’Islam.
Una violenza religiosa, però, attraverso la Seleka, ha preso vita nel Paese…
E’ innegabile che i ribelli della coalizione della Seleka abbiano utilizzato la fede per legittimare le violenze e abbiano poi perseguitato la popolazione cristiana. Dopo è successo che i cristiani e gli animisti si sono armati a loro volta e oggi è soprattutto la comunità musulmana ad essere perseguitata qui a Bangui.
Lei è andato a convivere con l’Arcivescovo di Bangui nel vescovado. Come mai questa decisione e cosa le ha trasmesso questa esperienza?
Io e l’arcivescovo Dieudonne Nzapalinga abbiamo dimostrato al mondo che la convivenza confessionale non solo è fattibile, ma deve essere il nostro obiettivo. Io con quest’esperienza ho rivissuto le origini della mia religione, quando avvenne la piccola Egira e un gruppo di fedeli guidati dal Profeta, essendo perseguitati in Arabia, scapparono in Etiopia e qui vennero accolti e protetti dal re cristiano. Oggi le religioni nel mondo vengono viste come origine del crimine e della guerra; è tempo che in Centrafrica si inverta questa tendenza e si torni a parlare di fratellanza e libertà confessionale. Veri valori dell’Islam.
Qui a Bangui però c’è l’Imam della Moschea centrale Ahmadou Tidjani che ha tenuto discorsi in cui non condannava la violenza dei musulmani verso i cristiani…
Un Imam non deve essere un artigiano di morte. La faziosità e la strumentalizzazione dell’odio non sono affatto un che di onorabile. L’Imam Tidjani ha chiesto tra l’altro, al mondo islamico di soccorrere i musulmani del Centrafrica. In questo modo, però, ha teso la mano a gruppi come Boko Haram. Un buon musulmano sa invece che la vera “jihad” non è una guerra armata contro i cristiani o gli “infedeli”, ma è una missione interna all’Islam: è un percorso che i musulmani devono fare per aiutare i loro fratelli a non sbagliare e avere una visione corretta, nei pensieri e nei fatti, della nostra religione
Come crede si possa porre fine alla crisi del Centrafrica?
Continuando a dimostrare che la convivenza confessionale e la libertà religiosa devono essere prerogative di questo Paese e poi proseguendo nel cammino di condanna incondizionata a ogni forma di violenza.